“O topo se tène ‘o turco”: sembra uno di quei tormentoni derisori che hanno avvelenato l’infanzia di molti. A immaginare di ascoltarlo con l’accento cantilenante e l’intonazione petulante dei verdi anni, si materializza davanti agli occhi la scena: vittima al centro e intorno, magari in cerchio, il branco. Facce ottuse e compiaciute a devastare un ego malfermo! “O topo se tène ‘o turco”: potrebbe essere il titolo di una versione in vernacolo di un racconto del libro Cuore. Potrebbe essere l’incipit di un bozzetto dickensiano ambientato nei vicoli della Sanità. Potrebbe essere… ma non è.
di ANNAMARIA RUSSO
La mano che ha vergato questa frase, più o meno una cinquantina d’anni fa, su tre muri di Napoli, verosimilmente non doveva avere eccessiva dimestichezza con i tomi lacrimosi che hanno immalinconito le prime letture di chi scrive. Né probabilmente avere la stessa propensione stucchevole alle divagazioni letterarie.
“O topo se tène ‘o turco”: è uno dei graffiti più famosi e antichi di Napoli. E’ sopravvissuto alle riqualificazioni urbanistiche, agli interventi post terremoto e perfino all’orgia di ritinteggiature sommarie dei mondiali del ’90.
Il decano dei graffiti, per quasi quarant’anni ha resistito ostinato su tre muri della città. Nessuno osava cancellarlo. Perfino gli adolescenti, con rispetto, affidavano a pareti vicine le loro struggenti dichiarazioni d’amore. “O topo se tène ‘o turco”: un mistero irrisolto, spruzzato sui muri di una città. Un messaggio sibillino, più oscuro dei crittogrammi di Poe, che per anni ha appassionato centinaia di persone. “O topo se tène ‘o turco”: un graffito che è diventato leggenda metropolitana. E poi improvvisamente agli inizi degli anni ‘ 90 è sparito.
Il suo esordio sui muri alla metà degli anni cinquanta scatenò subito una ridda di interpretazioni contrastanti. Tutte plausibili, nessuna convincente. Tra ipotesi, illazioni, dichiarazioni, smentite, calunnie, spiegazioni, via via fantasticando è trascorso più di mezzo di secolo.
Qualche decennio fa, un giornale inviò, in trasferta napoletana, un esperto in graffiti, sperando di risolvere l’arcano e sbattere lo scoop in prima pagina. Ma si mormora, che il pover’uomo dopo essersi aggirato per settimane intorno ai muri, mormorando allucinato “Maestro il senso lor m’è duro” abbia partorito un paio di farraginose interpretazioni accolte con educata freddezza dall’editore, e prontamente cestinate dal direttore.
La prima faceva riferimento alla collocazione delle tre scritte. Pare che collegando idealmente i tre punti della città sui quali campeggia la scritta, venisse fuori un triangolo equilatero. All’interno di questa figura geometrica, tradizionalmente collegata al regno dell’esoterico, l’“esperto” avrebbe individuato un’area sulla quale si contendevano forze magnetiche e influssi spirituali, due noti maghi partenopei: ‘o Topo e ‘o Turco.
In questo poligono magico i due stregoni avrebbero ingaggiato una battaglia, stile Mago Merlino contro Maga Magò, a suon di sortilegi e fatture, con copioso spargimento di morti per influssi negativi su entrambi i fronti.
A questa interpretazione va sicuramente riconosciuto il merito di aver toccato il punto più alto della fantasia delirante, quello che si congiunge con l’idiozia.
La seconda interpretazione è una variante progressista della prima, sempre due maghi, ma omosessuali che si contendono il business dei consulti per radio private. Uguale la strategia bellica utilizzata dai due santoni dell’etere.
Con tutto il rispetto per lo stress da convivenza con meridionali che sicuramente deve aver provato non poco le cellule grigie del grafitologo settentrionale, quel che proprio non riusciamo a cogliere è il nesso tra queste due storielle, sulle quali Freud potrebbe scrivere un trattato, e la scritta alla quale da decenni i napoletani non riescono a dare un senso.
Lontani da ogni ambizione ermeneutica, abbiamo provato, con l’ausilio di qualche consulente, (leggi: il pescivendolo della Pignasecca, noto napoletanista esperto in gergo dei quartieri popolari; la signora Maria del Borgo Sant ‘Antonio, fine conoscitrice dei costumi locali e Antonio, portiere di notte di un noto albergo ad ore nella zona della Ferrovia, nonché autorevole memoria storica del quartiere) ad esaminare la frase sibillina.
Innanzitutto l’analisi linguistica rivela immediatamente un richiamo ad una relazione fra il soggetto ‘o topo e l’oggetto ‘o turco, di matrice sessuale.
La voce verbale “ se tène” viene utilizzata nella lingua napoletana per indicare relazioni clandestine e lontane dalla morigerata etica cristiana. La declinazione maschile dei due termini della relazione accrediterebbe la natura omosessuale della relazione. L’intento della scritta, considerato il tono lapidario e la scelta della voce verbale è chiaramente diffamatorio.
Da who’s and who dell’epoca scopriamo che la zona delimitata dalle scritte era controllata da un boss temutissimo, protetto da due guardaspalle feroci. Uno dei due aveva dei baffetti sottili e la faccia triangolare, e era soprannominato ‘o Topo. Ovviamente nessuno lo chiamava apertamente così. Gli si rivolgevano tutti con tono deferente. Anteponendo al suo nome un rispettoso don. Ma nei vicoli,nei bar, durante le partite a tresette, tra amici insomma, se si parlava di lui ,si diceva ‘o Topo.
L’altro era un gran bel tipo. Alto, bruno, capelli ricci, pelle scura e occhi di brace. Sua madre era vedova. Vedova da troppo tempo quando era nato lui. Sarà pure stato il dolore della perdita, sarà pure stata una grazia della Madonna, ma quel figlio nato 13 mesi dopo la morte del padre e tre mesi prima della partenza di quel bel giovane che era emigrato dalla Turchia, aveva fatto mormorare. Quand’era ragazzino nessuno si faceva specie di chiamarlo ‘o Turco. Da quando, però, il figlio aveva cominciato a frequentare certi ambienti, la mamma del Turco era ritornata ad essere per tutti: “una santa donna”. E quel soprannome che poteva alludere ad un errore di gioventù era stato cancellato dalla bocca di tutti. Anche lui era diventato don , figlio unico di madre vedova e inconsolabile. Ma nei vicoli, nei bar, durante le partite a tresette, tra amici insomma, se si parlava di lui si diceva ‘o Turco.
Due uomini d’onore ‘o Topo e ‘o Turco. Colleghi leali e amici per la pelle. Amici da sempre. Molto amici. Troppo amici. Certo questo non si diceva apertamente. Ma nei vicoli, nei bar, durante le partite a tresette, tra amici insomma, se si parlava di loro si diceva ‘o Topo e ‘o Turco so’… e seguiva un lieve accarezzamento del padiglione auricolare, tipica espressione della gestualità partenopea che allude volgarmente a inclinazioni omosessuali.
Dunque, ricapitolando: il boss del quartiere ha due guardaspalle, don e don, che nei vicoli, nei bar, durante le partite a tresette, tra amici insomma, venivano chiamati ‘o Topo e ‘o Turco e ai loro soprannomi faceva seguito, spesso, l’accarezzamento del padiglione auricolare.
Il boss, non era un patito delle partite di tressette. Ergo il boss era tagliato fuori da certe illuminanti conversazioni.
Il boss aveva due figlie e dovette sembrargli una buona idea darle in moglie ai suoi più fidati scagnozzi.
Il boss aveva anche un nemico giurato. Uno che controllava il quartiere limitrofo. Nel mondo della mala era considerato una mezza cartuccia. Ma era un asso del tressette. E non era tagliato fuori da alcune illuminanti conversazioni.
E allora? Allora la mezza cartuccia della mala ebbe un’intuizione: per sottrarre il regno al nemico non serviva la nitroglicerina, bastava colpire con una bella bomba di vergogna. Detto fatto, invece dei sicari, nel territorio nemico ci mandò uno di quegli artisti moderni. Quelli che scrivono sopra i muri dei palazzi. Il giovanotto aveva in tasca tre indirizzi e un paio di barattoli di vernice. Un lavoro pulito per una bella manciata di banconote.
Detto fatto. La mattina dopo sul palazzo del boss e su quello dei due scagnozzi campeggia la stessa lapidaria scritta: ‘O topo se tène ‘o turco.
Un colpo da maestri. Il boss per sfuggire all’onta ripara in Sicilia con al seguito le due figlie disonorate e piangenti. ‘O Topo e ‘o Turco scompaiono. Non si è mai saputo se in un pilone di cemento o su un’isola tropicale.
E la mezza cartuccia? Come un generale vittorioso per quarant’anni fa sventolare sui muri del suo quartiere gli stendardi di un trionfo. Una partita impossibile , vinta ad un tavolo di tressete!
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All’interno la storia di ‘O Topo se tène ‘o Turco apre la nuova rubrica sulle Leggende Metropolitane
'O Topo se tène 'o Turco
1 Luglio 2009
Magnifica interpretazione del dna di Napoli!