Snorky, un giallo!

Ci sono storie che nessuno racconta. Terribili, misteriose, sconosciute. Storie di popoli che si sono combattuti fino a sterminarsi. A vicenda. O quasi.
Una di queste leggendarie epopee, è sicuramente quella che vide, uno contro l’altro, in uno scontro fratricida, un popolo che viveva in fondo al mare e quello più noto delle foreste sul confine franco-belga: gli Snorky contro i Puffi.
O se vogliamo dirla tutta i piccoli eroi che spopolarono negli anni Ottanta, anche grazie ad un’imbarazzante canzoncina di Cristina D’Avena, contro i loro lontani parenti di ‘penna’ che si guadagnarono, all’apice del successo, anche un saggio firmato da Umberto Eco, “Schtroumpf und Drang“, tutto dedicato alla semantica del loro strampalato linguaggio.
Ecco. Nell’immaginario comune gli omini che al posto del naso avevano un respiratore (tipo le maschere da immersione dei bambini), sarebbero nient’altro che una copia mal riuscita del popolo blu che si impose all’attenzione del mondo negli anni Settanta. In realtà le cose andarono diversamente. E, secondo un’oscura leggenda, i Puffi, per mantenere il loro successo, furono costretti a sterminare i loro antagonisti.
Gialli.it ha indagato su questo ‘cold case’, ed è pronto a svelarvi tutta la verità.

Mezzo secolo fa “Passe-moi le… schtroumpf”
Partiamo dai blu.
Erano cento. Circa. Vivevano in un villaggio invisibile agli occhi degli uomini, e furono creati da uno stravagante belga che sulla carta d’identità veniva indicato come Pierre Culliford, classe 1928, ma che in giro per Schaerbeek, in Belgio, conoscevano come Peyo, che significava Pierrot, ma detto male.
Ecco. Questo signore un giorno, era a ristorante e si accorse di non ricordare più come si chiamava la saliera. Aveva chiamata la cameriera, voleva del sale, gli sarebbe bastato chiedere, ma niente. Vuoto. Capì in un attimo che non sarebbe stato mai in grado di risolvere il suo problema, perché non si ricordava come si chiamava una saliera. E allora gli venne quella cosa stramba. “Passe-moi le… schtroumpf”. Passami il puffo, disse. Silenzio generale. Imbarazzo. Poi un amico gli passò il sale e disse “Tieni, ecco il tuo puffo, e quando avrai finito di puffarlo, me lo ripufferai!».
In quel esatto momento nacquero i Puffi. Centocinque omini blu, guidati da un capo supremo, Il Grande Puffo, insediati in un villaggio che si chiamava Pufflandia, e che qualcuno considerava, per la quasi assoluta assenza di donne, un vero e proprio paradiso in terra.
I personaggi vengono presentati al mondo nel 1958. Ma il loro massimo successo lo raggiunsero negli anni Settanta anche grazie alla determinazione editoriale di Freddy Monnickendam, disegnatore belga e fondatore della SEPP International S.A, la casa editrice che per prima produsse i Blu. Non vi dimenticate il suo nome, perché è la chiave della nostra storia.

I Tritoni marini con uno zufolo in testa
Dai Puffi agli Snorky il passaggio è inevitabile.
I personaggi di Peyo hanno conquistato il mondo, Negli anni Settanta sono popolarissimi, negli anni Ottanta diventano un vero e proprio cult d’autore. Nel 1979 Eco pubblica “Schtroumpf und Drang“, la consacrazione dei Blu diventa inesorabile. Eppure qualcosa non funziona tra l’editore dei Puffi e il mite Peyo. Il primo chiede uno sviluppo dei personaggi più in linea coi tempi, il secondo è determinato a non rompere gli equilibri di Pufflandia. Finisce che i due litigano e Monnickendam rompe il sodalizio. E si vendica.
Nel 1982, complice il fumetto Les Snorky di Nicolas Broca, una delle matite più celebri della scuola francese dei balloon umoristici, lancia i suoi trenta omini col tubo (tecnicamente: tritoni marini con zufolo sul capo), e prova a ripercorrere i successi dei cugini terrestri di Peyo.
All’inizio funziona. Il cartone animato viene acquistato addirittura dalla Hanna-Barbera Productions e trasmesso negli USA dalla NBC. In Italia la serie arriva nel 1985. Piace. Si impone. Anche grazie ad una buona campagna di merchandising che fa arrivare nelle case dei bimbi trenta pupazzetti prodotti dalla Schleich e che oggi valgono un botto.
Poi, improvvisamente gli Snorky scompaiono.
Cosa è realmente accaduto al popolo degli abissi che sembrava poter fronteggiare senza problemi il successo degli odiati cugini?

Tutta la verità
Son quelle storie che nessuno vi racconta.
Ma Gialli.it non si ferma alla superficie delle cose. Ed è pronto a svelare un segreto antico e doloroso. Gli Snorky furono sterminati dai Puffi.
Secondo molti, infatti, per un lungo periodo Snorky e Puffi erano alleati. Poi gli esserini col tubo cominciarono a contestare la leadership del Grande Puffo, e si allearono con Gargamella. Fu lo scontro. Sanguinoso. Doloroso. Una vera e propria guerra senza quartiere vinta solo dopo molto tempo, proprio dai Blu, che imposero ai cugini traditori di vivere nelle profondità del mare. Per gli Snorky fu la fine. Grazie alle loro conoscenze magiche riuscirono a sopravvivere negli abissi qualche anno, poi Snorkylandia scomparve per sempre.
Peyo aveva trionfato. Freddie Monnickendam scomparve nel nulla, e non si sa nemmeno se sia ancora in vita. Il giallo continua.

Condividi l'articolo su:

La Leggenda Nera di Curon

Erano da poco passate le sette e mezza di sera, quando la corriera se non volò via. Nel lago.
Non viaggiava neanche troppo veloce. Qualcuno disse che era per via di una voragine che si era aperta sulla strada per Malles, altri, il giorno dopo, scrissero che l’Alfa Romeo 500 della Fad aveva perso una ruota, all’improvviso, in curva. Cambia poco. Li ritrovarono sul fondo della diga. 15 metri sotto la superficie di quella pozzanghera odiosa. Il Lago di Resia. Con dentro 22 cadaveri. 5 ragazzini. Gente del posto. A tre giorni dalla festa di fine estate. 12 agosto 1951.

Se uno dovesse aver voglia di cercare l’inizio di una maledizione, forse quell’incidente, sembra scritto apposta. Come se non bastasse quello che era accaduto poco prima. Un paese intero sommerso per far spazio a un bacino artificiale. Curon che scompare sotto le acque della ‘modernizzazione’. 411 ettari di terra coltivata, duecento case e la chiesetta romanica di Santa Caterina d’Alessandria. Quella del campanile, si. Tutto sotto. Tutto sommerso. Senza nemmeno avvertire. In nome di una diga che non serviva a un cazzo.

E’ tutta qui, la storia di Curon Vecchia. Il paesino del campanile sommerso che da qualche giorno ha aperto i cassetti della memoria, per dar spazio ad una bella serie Netflix. Curon. Appunto. E la maledizione dei ‘doppelgänger’, la leggenda della campane, dei lupi, delle paure che ci portiamo dentro. Sommerse. Appunto. Come quel paesino, mezzo secolo fa, e oltre.
La serie è bella. Criticata dagli smanettoni Social, troppo ‘italiana’ per chi mangia pane e America, ma senza entrare nel merito, ha il merito indiscutibile di aver riportato in superficie una storia antica. Quella di un piccolo paese a pochi passi da Bolzano, di cui oggi rimane solo l’immagine inquietante e suggestiva insieme, di una torre a forma di matita, che spunta dalle acque.
Curon è un lago di leggende dimenticate. Le campane. Prima di tutto. Che si sentirebbero di notte, le ombre, che qualcuno vede ancora. Sciocchezze, naturalmente. Ma provate ad avvicinarvi con una barchetta al campanile, e vedete come la prendono quelli del paese nuovo. Quello che nacque dopo le cariche di esplosivo che fecero saltare l’intero abitato. Era il 16 luglio del 1950. Le campane di Santa Caterina suonarono per l’ultima volta. E poi, bum. Bum. Bum.
Da allora tutto quello che accade a Curon Nuova è nella testa della gente. Dentro i loro ricordi. Infilato nelle loro paure. Curon è bella di giorno. Ma di notte ‘fa’. Eccome, se ‘fa’. Il lago non perdona. Il lago non dimentica. La vita, sotto, non si è mai fermata. E’ solo diventata una vecchia leggenda. Che torna, nelle notti di luna piena. Per spaventare i bambini. E far capire agli adulti, che le cazzate, si pagano sempre.
Guardatevela, Curon. La serie. E’ bella. Ma solo per chi sa ancora guardare dentro le storie del nostro passato. E, ha ancora voglia, di non dimenticare.

Curon Venosta, è un comune di tremila abitanti, in provincia di Bolzano. Le campane non ci sono più. Se le portarono via prima di far sparire il paese.
Solo per cronaca. Eh.

 

Condividi l'articolo su:

Banksy, ritrovata la Porta del Bataclan

Se la portarono via il 25 gennaio del 2019, l’hanno ritrovata in un casale della campagna abruzzese. La Porta del Bataclan, dipinta da Banksy per ricordare le 90 vittime dell’attentato terroristico del 13 novembre 2015, rubata a Parigi è finita misteriosamente in Italia. Un giallo nel giallo, che almeno restituisce alla Francia la ‘Donna Dolente’ dello street artist più famoso del mondo.

La porta dell’uscita di sicurezza del locale parigino è stata recuperata grazie ad un’azione congiunta della polizia italiana e dei magistrati francesi. Era nascosta a Tortoreto, in provincia di Teramo, ma nessuno sa ancora come sia finita proprio in Italia. Esclusa la pista terroristica. Il furto deve essere avvenuto per “motivi economici”. Ma il procuratore generale dell’Aquila Michele Renzo, in una conferenza stampa terminata poche ore fa, ha preferito non aggiungere dettagli: “Abbiamo fatto un patto di riservatezza con la Francia e intendiamo rispettarlo. Possiamo solamente dire che non abbiamo elementi per pensare a un movente diverso da quello economico”.
L’opera di Banksy apparve sulla porta che si affaccia su Saint-Pierre Amelot, nell’XI arrondissement, da cui erano scappati numerosi spettatori del concerto degli Eagles of Death Metal, la mattina del 25 giugno 2018, e divenne immediatamente un simbolo contro il terrorismo. In quei giorni altri sette disegni dell’artista ‘spuntarono’ sui muri di Parigi. Era il suo grande ritorno nella capitale francese. Poi il furto e l’indignazione del mondo intero.

 

 

Condividi l'articolo su: