Apparve per la prima volta nel novembre del 1962. E nel giro di poche settimane era già un caso editoriale.
Ora, del mitico Diabolik, arriva in libreria una vera i propria chicca. “I Numeri Uno”. La incredibile storia del primo albo, che vale migliaia di euro e nasconde un segreto. Eccolo.
L’idea era venuta ad Angela. Angela Giussani. Milanese, classe 22, ex modella col pallino dell’editoria. “Facciamo un albo tascabile che racconti le avventure di un ladro”. Disse. E nessuno la prese sul serio. Ma le donne sono cocciute. E Angela non si perse d’animo. Creò una casa editrice tutta sua (la chiamò Astorina) e presentò al mondo mr. Diabolik. Il Re del Terrore. Tempo un anno e quel ‘giornaletto’ diventerà famoso in tutta Italia. Ma c’è un segreto dietro la prima pubblicazione di Diabolik. Un segreto che conoscono solo i collezionisti. Del mitico Numero Uno di Diabolik ne esistono due diverse versioni. Una, apparsa il primo novembre 1962. Un’altra, rifatta completamente, e mandata alle stampe due anni dopo.
Le cose sono andate così.
Angela Giussani decide di fare Diabolik. Scrive la sceneggiatura, e incontra un disegnatore cui propone di disegnare un personaggio che dovrebbe ricordare il Fantomas televisivo. Lui, il disegnatore, si chiama Angelo Zarcone. Ma tutti lo conoscono come ‘il tedesco’. E’ un disegnatore talentuoso, ma Diabolik non scatena la sua fantasia. Tante che quando presenta le tavole in casa editrice, Angela fa una smorfia curiosa. Ma ormai non c’è tempo. Il Re del Terrore deve andare in stampa.
C’è gente che ha fiuto. Per il successo. Angela Giussani, con Diabolik, fece immediatamente centro. Il fumetto ebbe numerosi consensi e venne anche ristampato. Con una serie di piccoli ‘aggiusti’ alla copertina.
Il mistero si consuma due anni dopo. Quando ormai Diabolik è una celebrità. Angela e la sorella Luciana (che nel frattempo ha deciso di lavorare anche lei alla Astorina) hanno ormai capito che Diabolik è destinato ad un successo duraturo e decidono di fare una cosa che non ha eguali nel modo dei fumetti. Decidono di far ridisegnare il primo albo. Il Re del Terrore. Che proprio non gli era piaciuto.
Detto fatto. Le tavole di Zarcone scompaiono nel nulla e il numero uno viene affidato a Luigi Marchesi, che già disegnava Diabolik da un bel po’. Sembra finita qui. L’edizione data 1° novembre 1962 diventa una rarità e scatena la caccia dei collezionisti. Ma il mistero diventa un vero mistero nel momento in cui i giornalisti si lanciano alla caccia di Zarcone. Fosse solo per chiedergli come l’ha presa, quella strana scelta delle Giussani.
Ecco. Questo è il mistero. In tanti anni di ribalta, di trionfi, di interviste, di mostre monografiche e quant’altro, del “tedesco” nessuna traccia. Nessuno è mai riuscito ad incontrarlo. Nessuno conosce il suo vero volto.
Che fine ha fatto Angelo Zarcone? Nessuno lo saprà mai. Una sola cosa è certa. Se avete quel primo numero di Diabolik tenetevelo ben stretto. Vale diecimila euro. E per essere certi che non si tratti di un falso vi conviene anche comprare Diabolik – I Numeri Uno di Nicola Pesce editore, che questa storia ve la racconterà mille volte meglio di noi.
Archivio mensile:Agosto 2015
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Bologna. Il Simbolo di una Strage
2 agosto 1980. Nella sala d’aspetto di seconda classe della stazione di Bologna viene fatto esplodere un ordigno nascosto in una valigia abbandonata. 23 chili di tritolo, e in pochi secondi è l’apocalisse. 85 morti. 200 feriti. E l’Italia intera in ginocchio. E’ l’attentato terroristico più grave della storia del nostro Paese.
A trentacinque anni esatti da quella strage non c’è ancora nessuna verità. Nessuna certezza. O meglio. Ce n’è una. Di certezza. Una sola. L’orario. Fissato, come un terrificante ferita, dalle lancette di un orologio a muro. 10,25.
Quell’orologio è il simbolo della Strage di Bologna. Ma la sua storia ha dell’incredibile. Ve la raccontiamo, perché, a volte, anche solo un dettaglio, serve per non dimenticare. Mai.
Era sabato, quando esplose la bomba.
Nella stazione c’erano centinaia di persone. In ritorno o in partenza per le vacanze. Era il 2 agosto. Come oggi. Come quelli trascorsi in questi ultimi 35 anni. A pensare a quella mattina, e a convincersi che nessuna verità ci verrà mai raccontata sul serio.
Il tritolo era stato nascosto in una valigia e poggiato su un tavolino portabagagli sotto il muro portante dell’ala ovest.
Alle 10,25 in punto l’esplosione. Che investì anche il treno Ancona-Chiasso, distrusse trenta metri di pensilina e l’intero parcheggio dove si fermavano i taxi. 85 le vittime. 200 i feriti. E l’inferno in terra, con la Stazione di Bologna che era ormai un rogo dolente.
L’orario di quella strage lo conosciamo per un orologio. Un orologio a muro che bloccò il tempo alle 10,25.
Per 35 lunghi anni tutto il mondo ha pensato che quell’orologio non si fosse mai riattivato. Che si fosse rifiutato di segnare il tempo, dopo tutto quel dolore. E invece il Simbolo della Strage ha avuto una storia stranissima. Ricominciò a battere le ore. Dopo alcuni mesi. Ma nessuno se ne accorse. Fino al 1995, quando, invece, si fermò per un guasto. E fu allora che il Sindacato Ferrovieri chiese di fermarlo per sempre e riportare le lancette a quelle tragiche 10,25.
Poi le cose vanno in maniera strana. E sei anni dopo, nell’agosto del 2001, gli zelanti e inopportuni tecnici delle Ferrovie dello Stato lo riattivarono.
“E’ un simbolo, ok – disse qualche pedante funzionario – ma come facciamo a spiegarlo ai giapponesi?!”.
Già. Come facciamo a spiegare ai giapponesi che in quella stazione dove si saranno fatti migliaia di selfie, vent’anni prima morì il nostro Paese, lo Stato, le gente per bene. Come si fa? Niente niente qualcuno rischiava di perdere il treno.
Un po’ di tempo dopo ha vinto il buon senso.
Oggi l’orologio di piazza Medaglie d’Oro è ritornato ad essere un simbolo. E a invitare i passeggeri frettolosi a non dimenticare quello che accadde il 2 agosto di 35 anni fa.
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La nuova scuola del giallo napoletano
Non si toglierebbe niente a nessuno se si scrivesse che Napoli è un po’ la capitale del giallo italiano. Eppure era dai tempi di Attilio Veraldi che all’ombra del Vesuvio non si viveva tanto fermento nel mondo dei delitti di carta.
Ecco chi sono i protagonisti della nuova scuola ‘gialla’ partenopea.
L’inizio è datato 1853. Così. Per mettere un cappello sulla poltrona.
L’autore è Francesco Mastriani. Il libro ‘start’ è Il Mio Cadavere. Un romanzo nero, un giallo psicologico, senza investigatore, ma con tanto di cadavere.
Siamo tra Edgar Allan Poe e Wilkie Collins, ma soprattutto siamo sei lustri prima di un certo sir Arthur Ignatius Conan Doyle. Se non è una paternità questa, poi ne parliamo con calma.
Napoli è a tutti gli effetti la capitale del giallo italiano. Ma il primato lo perde in breve tempo. La parentesi novecentesca di Matilde Serao e dei suoi Il delitto di via Chiatamone (1908), e la Mano Tagliata (1912), preceduta da un passo nelle atmosfere macabre alla Poe di Salvatore Di Giacomo e della sua raccolta Pipa e Boccale (1893), e poi il nulla. Bisognerà aspettare il grande Attilio Veraldi per risentire il dialetto napoletano in una serie di gialli mozzafiato. La Mazzetta, Naso di Cane, Scicco, a metà degli anni Settanta. Poi ancora il nulla. Fino a quando non arrivò un ‘certo’ Maurizio De Giovanni. E tutto cambiò.
Ma andiamo per ordine. Come dicono quelli che non sanno scrivere.
Maurizio De Giovanni
Lavorava in banca e giocava a pallanuoto il papà del Commissario Ricciardi. Lui è uno che al successo ci è arrivato ‘da grande’. E per caso. Quasi per gioco. Come ricorda sempre. Forse per non dimenticarsene mai.
Maurizio De Giovanni, classe 58, è il capofila della nuova scuola di giallisti napoletani. Ma lui, fino al 2005, faceva altro. Lavorava in banca e giocava a pallanuoto nel Posillipo e nella Nazionale. Poi il successo. Arrivato grazie ad un concorso per scrittori esordienti. Da allora non si è fermato più. Decine di romanzi, centinaia di migliaia di copie vendute, libri tradotti in decine di paesi, grazie a lui Napoli si è ripresa il primato di Capitale del giallo.
Oggi è in libreria con Anime di Vetro. La decima avventura di Luigi Alfredo Ricciardi, commissario della Regia polizia di Napoli.
Piedimonte e Menna
Succede sempre così. Quando una cosa funziona ti vien voglia di scrivere. De Giovanni ha aperto la strada ed ecco che Napoli si è ritrovata con una serie di scrittori di razza che hanno ricominciato a parlare di delitti e misteri per raccontare una delle città più belle del mondo. Il primo è Stefano Piedimonte. Classe 1980. Penna ironica e tagliente. Lui Napoli non la nomina mai. I suoi personaggi li fa muovere in uno strano paesino dal nome che è tutto un programma: Fancuno. Ma di Napoli e della Campania ci sono le atmosfere e i colori, la rabbia e i ‘mali’.
Due romanzi per cominciare (Nel nome dello zio e Voglio solo ammazzarti), poi il successo de L’Assassino non sa scrivere. Lo pubblica Guanda. E l’investimento editoriale è una gran bella intuizione.
Oltre a Piedimonte c’è Antonio Menna. Originario di Potenza vive a Napoli da quando era bambino.
Al successo c’è arrivato pubblicando in rete un lungo ‘racconto’: Se Steve Job fosse nato a Napoli, una esilarante e dissacrante disamina sul mondo del lavoro a Napoli. Poi il grande salto. Nel giallo. Appunto.
Giornalista professionista, il suo ultimo romanzo, Il mistero dell’orso marsicano ucciso come un boss ai quartieri spagnoli, presenta il personaggio di Tony Perduto, stesso mestiere del suo autore, e costretto a indagare su un mistero che ha dell’incredibile: un orso ucciso nei quartieri spagnoli di Napoli.
Il libro è magnifico. Da leggere in una notte. Scritto in punta di penna e capace di aprire le porte su una Napoli misteriosa e tutta da scoprire.
La regina italiana del thriller partenopeo
Dunque De Giovanni, Piedimonte e Menna. Basterebbero loro per parlare di ‘scuola napoletana’. Ma l’elenco dei giallisti partenopei è lungo. Dai noir erotici di Sara Bilotti al Nero di Letizia Vicidomini, il rischio è solo quello di dimenticarne qualcuno.
Per quello che ci riguarda chiudiamo il nostro piccolo viaggio nel mondo del giallo partenopeo con una vecchia conoscenza: Diana Lama. La regina del thriller partenopeo.
Lei non è nuova ai successi. Medico chirurgo, ma soprattutto grande lettrice, si affacciò alla scena nazionale con una ‘vittoria’. Quella del Premio Tedeschi dei Gialli Mondadori, con un romanzo scritto a quattro mani con Vincenzo De Falco. Si intitolava Rossi come lei ed era il 1995. Ora Diana ne ha fatta di strada ed è in liberia col suo ultimo thriller: 27 ossa (Newton Compton). Ambientato a Napoli. In un palazzo maledetto, un ex manicomio femminile che nasconde un terribile segreto.
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Kurt Cobain. "Quelle foto non vanno pubblicate"
Era l’8 aprile di 21 anni fa, quando Gary trovò il corpo. Arrivò alla casa per installare alcune luci di sicurezza, e il cadavere era lì. Steso per terra. Che sembrava dormisse. A pochi passi un Remington M11, calibro 20. Il fucile a pompa che Dylan gli aveva comprato un po’ di tempo prima. Poi Gary trovò anche un biglietto. C’erano scritte un sacco di cose. Ma fu una frase che gli fece stringere forte le mascelle. “E’ meglio bruciare in fretta, che spegnersi lentamente”.
Gary non lo sapeva, ma quella era l’ultima bugia di Kurt Cobain. Il leader dei Nirvana. Il Sacerdote Nero della Generazione X.
La sua morte è ancora un mistero. E il ‘no’ alla pubblicazione delle ultime foto inedite, conferma che lo sarà per sempre. Un mistero. Un maledetto mistero.
Ci sono storie che non la smettono mai. Di urlare. Di raccontare. Di raccontarsi. Storie che rimangono aggrappate ad ogni cosa, come fosse fuliggine. Appiccicosa.
Quella di Kurt è la più vischiosa di sempre.
Cominciò 21 anni fa, l’8 aprile del 1994, e ancora oggi non si riesce a ripulire tutto. A liberarsene.
Kurt Cobain, l’icona grunge di diverse generazioni, si tolse la vita in un garage della sua casa sul lago Washington, che la primavera era appena cominciata.
Lo trovò Gary Smith. Un elettricista della Veca Eletric. Nella serra vicino al garage. Dall’orecchio un filo di sangue. Poi nient’altro. Solo quel maledetto fucile e il biglietto. “Questa lettera dovrebbe essere abbastanza semplice da capire”.
Gary capì. Almeno all’inizio, capì. Poi per ventuno lunghi anni su quella storia nessuno ci ha capito più niente, fino in fondo.
Suicidio? Omicidio? L’autopsia chiarisce poco. Si è sparato un colpo alla tempia. C’è scritto. E c’è scritto anche che in ogni litro di sangue Kurt aveva 1,52 milligrammi di eroina. Roba tre volte superiore al tasso di tollerabilità per qualsiasi essere umano.
E poi c’è scritto che Kurt si era sparato tre giorni prima. Il 5 aprile. Ma allora perché non c’è nessuna impronta sul fucile e sulla biro con il quale scrisse la lettera? E perché la suicide-note è evidentemente scritta da due mani diverse e con toni differenti. E infine, perché quella strana coincidenza: carte di credito bloccate, il cui utilizzo fu tentato nei giorni tra il 5 e l’8 aprile, quando Cobain era già morto?
Quanti misteri intorno a quella scelta, Kurt. Nessuno riesce a crederti. Nessuno avrà mai voglia di crederti.
Poi arrivano Courtney e Frances e vanno a dire al giudice che le foto inedite sulla tua morte non vanno pubblicate. Perché? Ovvio che in queste ore le persone che non ti hanno mai dimenticato stanno impazzendo. Perché? Perché dire no a delle immagini che potrebbero chiarire qualcosa? Perché sollevare l’ennesimo polverone di accuse e dubbi? Un giudice di Seattle voleva riaprire il caso. Aveva creduto alla tesi di Richard Lee. Qualcuno t’aveva sparato, Kurt. Ma tua moglie e tua figlia dicono no. E il mondo impazzisce. C’è poco da fare.