Il Commissario Lo Gatto

Una figura eroica e affascinante naviga verso una splendida isola: è basso, tarchiato, lo sguardo fiero all’orizzonte, una mano, la destra, infilata nell’abbottonatura del cappotto all’altezza del cuore. Napoleone Bonaparte, forse? No. Natale Lo Gatto. E l’isola non è l’Elba, ma Favignana. Chi è davvero quest’uomo? E perché una barca lo conduce al supplizio?
di LUCA FALCONE
Il commissario Lo Gatto (Lino Banfi nel film omonimo del 1986) è un alto dirigente della Polizia di Stato italiana, addirittura in precedenza titolare del commissariato presso la Santa Sede. Un uomo tutto d’un pezzo. Come ci tiene egli stesso a precisare, uno che non guarda in faccia a nessuno. Costi quel che costi.
Ed infatti, quando un giovane sacerdote viene assassinato nei Giardini Vaticani non trova di meglio che richiedere l’alibi addirittura al Santo Padre, e così facendo segna il suo destino e la sua nuova destinazione: Favignana, ridente, tranquilla, contemplativa, un po’ periferica forse, ma senz’altro bella. Per Natale Lo Gatto una noia mortale ed un’umiliazione senza precedenti: lui, che sogna di fare il commissario a Milano, ridottosi a trascorrere le giornate battibeccando con orde di turisti fai-da-te, difendendosi (ma solo fino ad un certo punto!) dalle insidie delle tre sorelle Patané, sue albergatrici ed ammiratrici, o giocando a scopone con il parroco, il barbiere e il farmacista. Unica vera consolazione la meravigliosa granita del mattino, consumata al tavolino in riva al mare. D’un tratto però tutto sembra complicarsi: una donna bellissima e dai noti facili costumi scompare. Tracce di sangue nel suo appartamento e una registrazione di dialoghi inquietanti che sembra testimoniare che tutti sull’isola la odino.
Lo Gatto si getta nelle indagini con rabbia straripante, supportato dall’agente Gridelli e dall’ambizioso giornalista Ragusa. Nel suo mettere a soqquadro tutta Favignana Lo Gatto torna di nuovo a non guardare in faccia a nessuno: interroga, perquisisce, fa tintinnar manette e minaccia comode camere di sicurezza a Trapani. Rischia anche la vita, ma non desiste. Mentre il mistero si infittisce Ragusa monta il caso.
“Lo Gatto è una belva!” tuona in prima pagina, e questi ormai sogna già il trasferimento. Giunge il momento della ricostruzione finale: Lo Gatto è pronto a stupire. E stupisce. Anche se stesso. La “morta” stessa è lì, viva, vegeta e furente, di rientro da una scappatella nientemeno che con il Capo del Governo, interrotta dallo scandalo che ha addirittura prodotto la crisi di governo! Lo Gatto si sente perso: addio sogni di gloria lontano da Favignana. Eppure invece, con un colpo di scena e coi ringraziamenti del nuovo Presidente, è promosso vice-questore a Milano. Carriera, la sua, solo agli inizi: Lo Gatto, integerrimo sempre, continua a non guardare in faccia a nessuno e guadagna anche la promozione a questore. Stavolta però di nuovo sperduto in Sicilia, a sostituire un eroe ucciso dalla mafia.

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Buon compleanno, Ronnie. Sei libero!

46 anni fa si portò via due milioni e mezzo di sterline da un postale che faceva la spola tra Londra e Glasgow. La rapina del secolo. Disse qualcuno. Era agosto. L’8 agosto.
Adesso lo possiamo dire. Senza più forzature. Il numero 8 per Ronnie Biggs è un numero fortunato
8 agosto 1929 la sua data di nascita. 8 agosto 1963 la rapina al treno. 8 agosto 2009 la libertà.
Jack Straw il segretario alla giustizia inglese ci ha ripensato e per l’ottantesimo compleanno di uno dei personaggi più affascinanti e incredibili della storia della “grandi rapine” ha deciso di regalargli la libertà.

“Totalmente incorreggibile” così il ministro lo aveva definito solo pochi mesi fa quando aveva deciso che Ronnie doveva restare nella prigione di Norwich. Le sue condizioni di salute sono peggiorate. Soffre di polmonite e riesce a mala pena a comunicare. Questo può bastare, forse, per concedergli una morte più serena.
Ronnie uscirà di prigione ad ottant’anni. “Libero per ragioni umanitarie”. E lui, probabilmente sorride sotto i baffi. Ha fregato le polizie di mezzo mondo. E chissà se ora andrà a cercarsi il gruzzoletto che ha nascosto da qualche parte per la vecchiaia. Staremo a vedere. Intanto: buon compleanno Ronnie! Goditela tutta, questa cavolo di vita. (cm)

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Avellino, il mistero del meteorite scomparso

E’ caduto sul suolo campano il 25 dicembre del 1999. Un dono natalizio. Sprecato. Dopo essere stato conservato negli uffici della Caserma dei carabinieri di S. Martino Valle Caudina per anni, nascosto agli occhi della scienza, il meteorite di Mafariello è scomparso nel nulla.
di GIOVANNI ASCIONE
Nel catalogo nazionale delle meteoriti italiane non risulta alcun reperto ufficialmente recuperato in Campania. E pochi sanno che nella notte di Natale del 1999, durante una violenta alluvione, a San Martino Valle Caudina (Avellino), un pesante masso spaziale, dopo avere attraversato per milioni di chilometri gli spazi interstellari, cade con violenza tra fiamme e fumo sul Monte Teano in località Mafariello.
Era una notte tempestosa. Come quella dei romanzi dell’Ottocento. Pioggia, tuoni, fulmini e frane. Nessuno si è accorto di nulla fino al giorno dopo. La mattina di Santo Stefano, un contadino del luogo a caccia di funghi sul posto vede infossato in un cratere, uno strano masso di colore marrone scuro con striature grigie. Pensa subito ad un ordigno esplosivo e allarma i Carabinieri della locale caserma sita alle pendici del monte.
L’uomo nota anche tracce di bruciature sugli alberi in almeno cinque punti che segnano la traiettoria del bolide rovente. Alcuni militari dell’Arma, adoperando le prime cautele del caso, con guanti ed altre protezioni, provvedono ad isolare la zona circostante e a contattare un geologo del vicino Comune di Cervinara. L’oggetto è di natura extraterrestre. Si consigliano analisi petrografiche presso un laboratorio di Napoli. In zona non ci sono altri crateri e questo conferisce ancora più unicità al reperto. Per diversi anni il prezioso masso di circa 6 Kg è stato custodito nella locale caserma dei Carabinieri di San Martino Valle Caudina dentro una scatola metallica. Nessun esperto è riuscito a vederlo ed analizzarlo. Non è stata effettuata finora una classificazione ufficiale. E forse non ci sarà mai.
Per motivi ancora sconosciuti, il reperto è scomparso. Svanito nel nulla. Il giorno prima c’era. Tutti i carabinieri si erano ormai abituati a vederlo lì. Il giorno dopo non c’era più. Nel 2004 era lì. Nel 2006 non c’era più. A causa di lavori di ristrutturazione è stato spostato. In un sottoscala. E poi più nulla.
L’unica traccia rimasta è il sintetico rapporto sul ritrovamento redatto all’epoca dei fatti che peraltro non è possibile nemmeno fotocopiare.
Oggi sarebbero utilissime almeno le foto e le analisi petrografiche. Per tentare una classificazione del meteorite. Ma anche delle immagini non è possibile ottenere alcun riscontro.
L’oggetto poteva conteneva una miriade di informazioni sul nostro sistema solare. Trasportate “gratuitamente” sul suolo campano. Aveva inoltre un primato: il primo e unico meteorite caduto in Campania.
Era stato preceduto da un altro sasso caduto nei pressi di Massa Lubrense (Sorrento) nel 1819. Ed è stato seguito da un altro meteorite recuperato nel centro storico di Calvi Risorta recentemente. In entrambi i casi gli esperti ne hanno confermato la natura terrestre.
In Italia, l’ultimo meteorite, registrato ufficialmente, è caduto nel pomeriggio del 25 settembre 1996 a Fermo in provincia di Ascoli Piceno. In quel caso il meteorite ha avuto una sorte migliore: analizzato e ufficialmente classificato come un chondrite ordinaria brecciata del tipo H, oggi è esposto nel locale museo scientifico. Come è giusto che sia.
La speranza oggi è che lo spazio infinito ci possa regalare una nuova scoperta tutta partenopea per  farci riscattare della sorte toccata al meteorite svanito nel nulla.

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Triora. Un museo per la Salem ligure

A Triora, in provincia di Imperia, è stato allestito uno dei pochi musei del mondo dedicati alla stregoneria: un viaggio tra la politica della Controriforma, la cultura ancestrale della terra ed il bisogno di vendetta del popolo.
di DIEGO ROMANO
Era il 1587. L’entroterra di Triora, chiamato il Granaio della Repubblica di Genova, già da tre anni soffriva  per una prolungata siccità. Il parlamento popolare, riunitosi per affrontare la situazione, aveva decretato che la colpa era delle streghe, le Bàgiue.
Questo è l’inizio la tragica storia di persecuzione di Triora, che nel suo momento più drammatico vide coinvolte duecento donne di ogni ceto sociale. Durante il processo d’inquisizione, con tanto di torture alla moda dell’epoca,  le ree confesse accusarono altre donne, e queste a loro volta ne coinvolsero altre ancora.
Nei due anni di processo, o meglio di tortura, morirono una decina di inquisite durante gli interrogatori. Una ragazzina confessò, abiurò e si salvò. Le nobili furono mandate a casa. Altre morirono di stenti nel carcere. Il governatore, il Doge e il Vescovo iniziarono un incredibile gioco di potere per avere l’ultima parola sul destino delle circa venti colpevoli impenitenti.
Dopo due anni di interrogatori, controinterrogatori e ripensamenti, le Bàgiue scomparvero. Furono trasferite a Genova  e, dopo un periodo di incarcerazione, non se ne seppe più nulla. Nessun rogo bruciò nella città di Triora, nessun rogo brucio a Genova, ed il popolo rimase insoddisfatto, senza spettacolo catartico.
A 420 anni dall’episodio, ora è possibile visionare i documenti originali del processo nel museo Etnografico e della Stregoneria.  Sono state ricostruite alcune scene raffiguranti le pratiche di tortura, e si ha l’opportunità di conoscere gli antichi segreti della cultura contadina, quelli che vennero trasfigurati in pratiche di stregoneria dalla devota cecità dell’inquisizione.
Cosa ne fu delle streghe di Triora? Devon Scott, autore di una ricostruzione degli eventi dell’epoca, suggerisce una ipotesi suggestiva: le donne potrebbero essere state liberate nell’entroterra di Genova, nella zona dove ora sorge San Martino di Struppa. Si dice che questo paesino abbia origini misteriose, e che le donne del luogo ricordino ancora formule magiche per curare i malati.

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"I Templari morirono per nascondere la Sindone"

La notizia è clamorosa, ma suona anche un po’ come una beffa. I Templari, torturati e uccisi con l’accusa di eresia e idolatria, non adoravano un idolo pagano, ma la Sindone. Furono loro a tenerla nascosta per secoli e portarla in Europa.
La verità emerge dopo sette secoli dagli archivi segreti vaticani.
di LAURA SAVINI
Li arsero vivi. Gli vomitarono in faccia le vergogne della sodomia, l’infamia dell’eresia, la calunnia dell’idolatria. Li torturarono. Li annientarono. Poi li lasciarono bruciare davanti alla cattedrale di Notre Dame. Per una notte intera. La notte del 18 marzo 1314.
Loro rimasero statue di pietra. Eroici monoliti. Roccia che non si scalfisce. Urlarono dolore, e non abbassarono la testa. Morirono tra le fiamme e rigettarono tutte le accuse.
Con loro bruciò il mistero di tutti i tempi. Il più grande enigma della storia. Chi era quella divinità misteriosa che adoravano in gran segreto? Chi era in realtà Bafometto?
Sono trascorsi quasi settecento anni e la domanda delle domande non ha ancora una risposta. Jacques de Molay e Geoffrey de Charnay se la sono portati nella tomba. L’hanno seppellita nello scrigno dei loro mille segreti. Sotto secoli di storia e di speculazioni. Di bugie e leggende. Sulla lapide del loro silenzio, oggi, c’è solo una croce e una scritta: Cavalieri del Tempio.
Chissà cosa avrebbero pensato tutti coloro che in qualche modo furono complici di quel complesso di accuse e cospirazioni che segnò la fine dell’Ordine se si fossero trovati di fronte alla verità che in questi giorni emerge proprio dagli archivi vaticani. Chissà quale sarebbe state la reazione del papa, di Filippo il Bello, di fronte ad una verità impossibile e sorprendente. L’idolo barbuto, la divinità “pagana” che i Cavalieri del Tempio avevano adorato e nascosto, altro non era che “il telo di lino”. Quello che noi, oggi, chiamiamo Sindone.
Un “idolo” chiamato Sindone
E’ questa l’ultima sconvolgente ipotesi sulla incredibile e triste storia di uno dei più noti ordini religiosi cavallereschi cristiani e medievali.
I Templari adorarono un “idolo barbuto”. Ma non era Bafometto, come volevano gli inquisitori che li processarono. L’oggetto della loro venerazione era il lenzuolo funebre nel quale fu avvolto Gesù nel sepolcro.
Dopo la resurrezione il telo scomparve misteriosamente. Qualcuno dice che fu nascosto a causa delle persecuzioni e delle credenze giudaiche che ritenevano impuri gli oggetti venuti a contatto con un cadavere.
Riapparve solo a metà del XIV secolo. Nelle mani del cavaliere Goffredo di Charny e di sua moglie Giovanna di Vergy. Non si è mai saputo come i due ne fossero venuti in possesso.
Oggi due studiosi sono in grado di rispondere a quell’enigma.
La prima è una ricercatrice dell’Archivio segreto vaticano che da anni studia e scrive dei Templari. Si chiama Barbara Frale e sul mistero del Bafometto ci ha scritto un libro, “I templari e la sindone di Cristo”, che ha convinto molti.
Il secondo è un giornalista, Massimo Centini, che dalle colonne di “Storia in Rete” ha ricostruito tutto il percorso che ha portato il “sacro lenzuolo” in Europa.
I loro studi e le loro ricerche si intrecciano, si intersecano, si incastrano perfettamente. Grazie a loro, il mosaico di una storia antica, prende forma. Tutti i tasselli sembrano, finalmente, andare al loro posto.
Il “viaggio” del sacro lenzuolo
Come si è detto, dopo secoli di silenzio, la Sindone riappare in Francia  intorno alla metà del 1300. E’ di proprietà della famiglia francese de Charny. Sarà un membro di questa casata che la cederà ai Savoia che poi la portarono definitivamente a Torino.
Prima di questo passaggio la reliquia viene “avvistata” in diverse località tra loro prive di legami apparenti. Fino a che un cavaliere crociato, Robert de Clary, presente alla presa di Costantinopoli, nel 1204, scrive nelle sue memorie di aver visto la Sindone nella chiesa di Santa Maria di Blacherne. Dopo il sacco di Costantinopoli non si avrà più alcuna notizia della telo di lino in quella città.
Oggi Centini sostiene che a portare la Sindone in Europa furono proprio i Cavalieri del Tempio. Geoffrey de Charnay, l’uomo che morì sul rogo insieme a Jacques de Molay, fu forse un antenato della famiglia di Lirey che possedeva la Sindone.
“I Templari – aggiunge la Frale – si procurarono la sindone per scongiurare il rischio che il loro ordine subisse la stessa contaminazione ereticale che stava affliggendo gran parte della società cristiana al loro tempo: era il miglior antidoto contro tutte le eresie”.
Chiusa in una teca speciale fatta apposta per lasciar vedere solo l’immagine del volto, e venerata in assoluto segreto in quanto la sua stessa esistenza all’interno dell’ordine era un fatto molto compromettente, il lenzuolo funebre fu rubato nel pieno del saccheggio di Costantinopoli che si consumò durante la quarta crociata. Nel 1204.
Poi cominciò il mistero. Il “gran segreto” per il quale i Cavalieri del Tempio morirono sul rogo. Una verità semplice e terribile che getta una nuova luce sull’Ordine più discusso e amato di tutti i tempi.
Oggi la Sindoneè conservata nel Duomo di Torino. E la sua può ammirare solo in anni particolari. Le esposizioni pubbliche sono chiamate “ostensioni”. Le ultime sono state nel 1978, nel 1998 e nel 2000. Nella primavera 2010 sarà nuovamente possibile vederla dal vivo.

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58, il numero scaccia mosche

L’ennesima leggenda metropolitana. L’ennesima beffa estiva. Ma questa volta ci sono cascati veramente tutti. Da Udine all’Argentario, da Genova a Venezia nei negozi di mezza Italia spuntano come funghi cartelli con il 58. Il magico numero “scaccia-mosche”.
Ecco la storia dell’ultimo delirio di mezza estate.
di SONIA T. CAROBI
A Napoli, probabilmente, non sarebbe accaduto. Nessuno ci sarebbe cascato.
E non perché all’ombra del Vesuvio non siano creduloni. Per l’amor di dio.
Il motivo è un altro. A Napoli quel numero è una lampadina accesa. Un messaggio forte e chiaro. A Napoli il 58 è il numero del “paccotto”. Il numero della truffa studiata a tavolino, preparata nei minimi particolari. Subdola e geniale. Sottile e inesorabile.
L’incubo di tutti quelli che stanno per fare qualcosa di importante nella vita, ma temono che l’inganno sia dietro l’angolo. La dannazione di tutti quelli che sanno perfettamente che “è troppo bello per essere vero!”.
A Napoli, probabilmente, non sarebbe accaduto. Ma a Milano, a Torino, a Firenze si sa, la Smorfia è poco più che un gioco. E ci sono cascati. Alla grande. Tutti.
Fatevi un giro per le salumerie, i bar, le pizzerie del centro-nord è rimarrete basiti. In ogni esercizio pubblico da qualche giorno campeggia inquietante un cartello bianco. Con una scritta rossa. Un numero. Grande, enorme, severo. Cinquantotto. E basta. Cinquantotto, e via. Via, per sempre, le mosche da vostro locale!
E già. Sembra incredibile, ma all’ultima leggenda di questa umida estate metropolitana hanno creduto veramente tutti. Tanto da scatenare un tam tam in rete che rimbalza forsennato da Udine all’Argentario, da Genova a Venezia, senza soluzione di continuità. Non ci sono dubbi: se avete un locale affollato e volete tenere lontane le mosche, dovete spararvi un poster di dimensione maxi con su scritto “cinquantotto”. In rosso.
Loro, gli insopportabili insetti dell’ancora più insopportabile famiglia dei ditteri, imperturbabili rompi coglioni da oltre 250 milioni di anni, capiranno l’antifona e si terranno alla larga. Provare per credere.
A Milano non hanno perso tempo. Loro sono concreti. Da quando all’enoteca “Polpetta doc” di via Eustachi il titolare ha affisso il suo bel manifesto col 58 a caratteri cubitali la vita è cambiata.  Niente più mosche. Ambienti asettici, silenzio lunare, e palette schiaccia ditteri appese a un chiodo. A futura memoria. In onore di un tempo che fu. In ricordo di antiche bestemmie, di paleolitiche manate a sorpresa per togliersi dalle scatole gli stramaledetti insetti con le ali.
A quelli del “Polpetta doc” l’amichevole consiglio era arrivato da un macellaio vicino di serranda. Forse è lui il Principio. L’inizio di tutto. L’uomo che ha cambiato per sempre il corso delle cose.
Il beccaio milanese ha cominciato e dietro di lui schiere di operatori commerciali hanno fatto a gara a chi aveva il 58 più grosso.
Nel piacentino e in Brianza i numeri scaccia mosche sono all’ordine del giorno. Li hanno tutti. Su carta, incisi nel legno, scolpiti nel marmo. All’Argentario anche i locali di moda hanno abbandonato l’orgoglio del miscredente e si sono sputtanati con 58 griffati di taglie e dimensioni imbarazzanti.
Il consiglio è far finta di nulla. Guai chiedere che cavolo significa quel numero rosso su fondo bianco. E perché mai un numero terrebbe lontano le mosche. Le risposte sono vaghe, infastidite, diffidenti, circospette.
Qualcuno azzarda che gli insetti vedrebbero nel 58 una specie di ragnatela e si terrebbero alla larga. Una cazzata bestiale sulla quale è meglio non chiosare.
In fondo con i numeri, da sempre, non abbiamo mai avuto un buon rapporto. I numeri fanno paura, nascondono significati che ci sfuggono, che ci inquietano, che ci tormentano.
Pensate all’ossessione per il numero 23 che ha dato vita anche ad un film. Il ventitre è il numero delle coincidenze imbarazzanti. E sarebbe talmente maledetto che anche gli esperti della materia si tengono lontani. O pensate al più prosaico 17. Sono secoli che viene considerato un numero sfortunato solo perché l’anagramma del suo corrispondente romano XVII, è VIXI, che significa “ho vissuto”, cioè “sono morto”. O perché, secondo la Bibbia, proprio di diciassette sarebbe iniziato il diluvio universale. O ancora, e soprattutto, perché il venerdì 17, secondo gli esperti, sarebbe morto Gesù.
Ma se il 23 e il 17 sono numeri tradizionalmente spiacevoli, c’è un altro numero che da un po’ di tempo sembra togliere il sonno a molti. Si tratta dell’undici. Il numero delle Torri Gemelle. Il numero degli attentati e delle stragi. Altro che scaccia mosche. Con questi tre numeri le leggende metropolitane fioccano e in alcuni casi lasciano veramente senza fiato.
Provare per credere.

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