Il 1 marzo 2009 ha aperto il nuovo museo dedicato all’abate Saunière ed ai misteri di Rennes-le-Château. Nella minuscola cittadina della Linguadoca-Rossiglione, oltre a visitare la chiesa di Santa Maddalena, è ora possibile scavare nella mole di documentazione esoterica redatta nel corso degli anni.
di DIEGO ROMANO
“Terribilis est locus iste”. Questo luogo incute terrore, o anche rispetto. Così recita la scritta sul frontone della chiesa. Cerca di avvertirci, non si può indugiare. Bisogna prenotare il viaggio.
Situato tra le colline della terra catara, il paesino arroccato è incredibilmente piccolo. Una strada che si arrampica in una landa desolata fino a giungere all’agglomerato medievale. Una ventina di case, una chiesa, uno shop dedicato al tema mistero. Da qui è partita la leggenda del Sacro Graal come Sangue Reale. Da qui alcuni studiosi di esoterismo hanno iniziato a comporre quel fantastico puzzle che ha portato alla scrittura de Il Codice Da Vinci.
L’abate Bérenger Saunière, parroco della chiesa di Santa Maddalena alla fine del XIX secolo, aveva deciso che era necessaria una ristrutturazione. Era il 1887. Da quel momento in poi la cittadina di Rennes-le-Château non è stata più la stessa.
Nello svolgere i lavori l’abate aveva scavato, trovato qualcosa. Qualcosa di tale valore da permettergli di stravolgere il progetto originale. Qualcosa che gli ha fruttato tanto da ampliare, rimodernare e arricchire quello sperduto luogo di culto ben oltre i più ottimistici budget dell’epoca.
Non ha mai detto cosa avesse trovato, ma la simbologia che ha lasciato nell’opera intera permette molta speculazione. Il tesoro degli Albigesi, un sepolcro colmo di ricchezze, pergamene che raccontano una verità scottante. Queste sono alcune delle ipotesi. Ogni idea è stata approfondita, ogni tesi valutata. Decine di libri e documentari, centinaia di articoli e indagini: migliaia di appassionati di tutto il mondo sono ancora irresistibilmente calamitati dal mistero. Un luogo minuscolo che ha tutti gli elementi per accendere il fuoco dell’investigazione esoterica.
Antoine Captier, Christian Doumergue e Mariano Tomatis sono i ricercatori che hanno votato la loro dedizione a preservare i lasciti di Saunière. I primi due, francesi, sono i responsabili di Terre-de-Rhedae, l’associazione che gestisce il museo nel presbiterio della chiesa. Tomatis invece gestisce il Gruppo italiano di Studio e Documentazione su Rennes-le-Château. Hanno deciso di unire le forze per dare l’opportunità ai visitatori della chiesa di Santa Maddalena di approfondire sia la storia del luogo, sia quella dell’abate che l’ha reso famoso. Tanti pannelli illustrati e la ricostruzione degli ambienti dove viveva Saunière. Una biblioteca dei testi più celebri, ma anche tante decorazioni dal significato oscuro.
La simbologia creata dall’abate lascia senza parole anche i meno esperti. Si entra nella chiesetta richiamati dall’odore di umido, di mistero, e ci si ritrova affianco ad un’acquasantiera retta da un diavolo scolpito nel legno, dipinto con colori densi, inquietanti.
Non si può restare indifferenti quando si va a Rennes-le-Château. Si scovano segni ovunque, si intuiscono indicazioni che altri hanno trascurato. Ma andare preparati rende l’esperienza ancora più travolgente.
La bibliografia sul tema è immensa, i siti web innumerevoli. Ognuno con la sua versione, ognuno con i suoi critici. In cima a tutti Il Santo Graal di Michael Baigent, Richard Leigh e Henry Lincoln, un libro che parte dalle vicende dell’abate Saunière per sostenere l’ipotesi di Maria Maddalena come sposa di Gesù storico. Un testo tacciato da Umberto Eco come “il modello di fantastoria più sfacciato”.
Ma non bisogna trascurare la Gazzetta di Rennes-le-Château e Indagini su Rennes-le-Château, due riviste italiane con studi e aggiornamenti sulle tematiche legate alla cittadina. Entrambe sono facilmente reperibili sul web, ma anche nello shop annesso alla chiesetta.
Con tutta la documentazione in tasca, non resta che partire. Raggiungere Carcassonne in auto e poi perdersi nei territori che furono degli eretici catari.
Per un soggiorno inquietante si può scegliere l’Hotel Terminus. Sopravvissuto dalla Belle Epoque ad oggi, porta con se emozioni da Overlook Hotel di Shining. L’intera area della Carcassonne bassa, Bastide St. Louis, ha il favoloso fascino della decadenza inarrestabile. Soggiornando lì si può innescare un meccanismo di reazione: le atmosfere eteree dei martiri albigesi vengono contrapposte ad una città fantasma vittima dei suoi stessi antichi splendori. La vertigine è assicurata.
Imperdibile una visita al vicino castello di Montségur, per ricordare il martirio di chi credeva nella perfezione dell’anima umana ed è morto per questa fede. Solo così si può capire come il territorio di questa parte d’Europa si presti perfettamente alla nascita di leggende su cavalieri dissidenti, tesori nascosti, tombe profanate e personaggi semi-divini.
Visitare il territorio di Rennes-le-Château permette di rivivere un’epoca di transizione trascurata dai libri di storia. Quando un mondo popolato da fantasiosi e innocui movimenti cristiani lasciò il passo alla Chiesa romana unitaria, lasciando nascosta una eredità di misteri rimasti ancora insoluti.
Archivio mensile:Giugno 2009
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Napoli, la Gorgone nascosta della Gaiola
In una foto degli anni 1960 è ritratto un mascherone dal viso terrificante, presumibilmente raffigurante un gorgoneion. Si tratterebbe di un affresco del II secolo d.C. ritrovato nella villa Paratore e fotografato da Augusto F. Segre, nipote del senatore. Per gli appassionati della Maledizione della Gaiola si apre un nuovo, inesplorato capitolo.
di DIEGO ROMANO
La fede e l’evidenza scientifica, si sa, sono gli unici strumenti a disposizione dell’uomo per tracciare un percorso inoppugnabile verso la verità. Ci sono però alcuni luoghi dotati di una atmosfera unica, diversa, affascinante e seducente. Allora il nostro carattere si indebolisce, la nostra determinazione diventa labile, e la razionalità cede spazio alle emozioni. Il nostro credo apre la porta all’immaginazione, e tutto sembra possibile.
Uno di questi luoghi particolari è la Gaiola a Posillipo. Chiunque conosca la sua storia dell’ultimo secolo non nuoterà con serenità verso l’isolotto. Visitare la villa abbandonata è un’esperienza che può essere vissuta con tranquillità solo se si è profondamente scettici, o se si ha una grande fede.
Di notte, quando il mare è in tempesta e la salsedine accompagna il fragore del mare già dai primi passi della discesa, l’isolotto e la villa hanno un aspetto che rende inquieti anche i cuori più forti.
La maledizione nell’ultimo secolo
Nel 1926 la villa era collegata alla terraferma da una rudimentale teleferica. In una notte di tempesta il cavo si spezzò mentre una signora tedesca, Elena Von Parish, stava rientrando sull’isola. La donna venne rapita dal mare e sparì. Hans Praun e Otto Grumbach, che ospitavano la donna alla Gaiola, furono talmente scossi dalla vicenda che si suicidarono: uno subito, e l’altro qualche tempo dopo aver fatto ritorno in Germania.
Questa vicenda, nel freddo piovoso dicembre napoletano, aprì le porte alla leggenda della Maledizione della Gaiola. Vennero infatti ricollegati due precedenti infausti eventi. Verso la fine del XIX sec. il primo proprietario e costruttore della villa, Luigi de Negri, mandò in fallimento la sua Società della Pescicoltura del Regno d’Italia nel Mar di Posillipo, che aveva sede proprio alla Gaiola. Invece nel 1911 il Capitano di Vascello marchese Gaspare Albenga, per far ammirare la costa alla marchesa Boccardi Doria, fece incagliare l’incrociatore corazzato San Giorgio sulla secca della Cavallara, proprio in prossimità della Gaiola.
In breve tempo l’isola venne comunemente riconosciuta come jellata, e gli eventi che seguirono alimentarono ulteriormente questa leggenda. Una barca di scugnizzi marinaretti del collegio Ascarelli-Tropeano fu travolta nel 1931 dalle onde sullo stesso scoglio della Cavallara. Maurice Sandoz, titolare della nota casa farmaceutica, abitò sull’isola negli anni 1950, ma finì in una clinica psichiatrica dove si suicidò convinto di essere finito in bancarotta.
Qualcuno cercò di cambiare la fama sinistra della villa. Il barone tedesco Paul Karl Langheim negli anni a cavallo del 1960 fece brillare di vitalità quell’angolo di Posillipo, organizzando feste ed incontri mondani. Un periodo tanto splendente da mandarlo rapidamente sul lastrico.
Fu allora che Giovanni Agnelli acquistò la villa, lasciandola generosamente ancora per qualche tempo in uso a Langheim. Il re dell’automobile fece alcune importanti opere come l’eliporto, ma ci andò di rado e la rivendette rapidamente ad un altro miliardario. Paul Getty, magnate del petrolio, entrò in possesso della villa nel 1968. A lui tutto filò liscio fino al 1973, quando la ‘ndrangheta rapì il figlio. Dopo l’amputazione di un orecchio del ragazzo, la famiglia Getty pagò un riscatto di 17 milioni di dollari.
Nel 1978 l’isola passò a Gianpasquale Grappone, detto Ninì, creatore del Loyd Centauro. Finì in galera travolto dai debiti, ed il giorno in cui la villa fu messa all’asta, la moglie Pasqualina Ortomeno morì in un incidente stradale.
La proprietà sull’isola infine andò nelle mani della Regione Campania, che la affittò a varie associazioni. Nessuna di queste però mantenne la promessa di restaurare l’edificio, e la cattiva fama della villa non fu mai cancellata.
Il periodo classico, la magia medioevale e le disgrazie antiche.
L’area della Gaiola è costellata di ruderi dell’epoca romana. Lì vi fu la villa di Publio Vedio Pollione, un uomo della cui vita si sa poco. Di certo allevava murene in apposite vasche scavate nel tufo, e di tanto in tanto le cibava gettando schiavi vivi, quelli che si mostravano un po’ maldestri.
La fama spietata del romano sicuramente contribuì alla creazione di miti e leggende legate alla zona del Pausilypon, ovvero la costa tra Trentaremi e Marechiaro. Fino al XIX secolo era ben visibile accanto all’isola della Gaiola un edificio romano semisommerso chiamato la Scuola di Virgilio. Nell’interpretazione medievale del poeta-mago, questo era il luogo dove il vate insegnava arti magiche. Non c’è quindi da stupirsi dell’interesse esoterico verso questo tratto di costa, dove venivano incantate pozioni ed eseguiti riti magici. Una variante della leggenda della Gaiola vuole che lo specchio d’acqua intorno all’isola sia stato inquinato proprio dai resti delle pozioni create lì. Da cui il maleficio si sarebbe diretto verso chi vi permaneva per troppo tempo.
Si sa, la storia dell’uomo è un percorso a ostacoli. Difficoltà e disgrazie di ogni genere vengono riportate nei racconti e nelle memorie di chi li ha vissuti. Così, nel ricostruire la storia della jettatura della Gaiola, possiamo ritrovare un paio di eserciti liberatori sbarcati lì nel XVII sec., e repentinamente annientati dagli occupanti spagnoli.
Un’altra leggenda tramandata dal passato vorrebbe sull’isola un tempio della Venere Euplea, protettrice dei naviganti. Pare che l’origine di questa convinzione risieda nell’antico nome dell’isola, Euploea, come riportato da Stazio e dal Pontano. Dopo i recenti avvenimenti che hanno coinvolto la famiglia Ambrosio, proprietaria della villa prospiciente l’isola, si è riaccesa la teoria della dea pagana come causa della jettatura. Ivan Cuocolo, docente di lettere presso le scuole superiori e appassionato delle storie sulla Gaiola, avrebbe individuato proprio nella fine del paganesimo la causa della maledizione. La dea Euplea sarebbe adirata con i profanatori del luogo sacro.
Una foto dimenticata, una nuova tessera nel puzzle del mistero
Nel 1820 l’archeologo Guglielmo Bechi acquistò l’area del Pausilypon ad un asta. Iniziò grandi lavori di scavi e portò alla luce alcuni edifici romani rimasti sepolti per secoli. Decise di costruire una villa panoramica sul promontorio prospiciente l’isola, e nel farlo incluse sia una cappella dedicata a S.Basilio, sia alcuni ruderi romani adiacenti. Alla sua morte la figlia vendette tutta la proprietà al Negri, che nel 1874 costruì la tristemente celebre villa sull’isola. Quando l’imprenditore finì sul lastrico, l’intera proprietà fu acquistata dal marchese del Tufo.
Creando danni archeologici inestimabili, il marchese scavò una cava di pozzolana proprio tra villa Bechi e lo Scoglio di Virgilio, come ricorda Robert Theodore Gunther nel suo libro Posillipo Romana. Di certo del Tufo trovò alcuni oggetti romani durante gli scavi, tra cui una statua di figura femminile, ma non passò alla storia per le sue attenzioni verso la storia e l’arte romana. La proprietà passò poi a Gennaro Acampora e successivamente all’ammiraglio inglese Nelson Foley, cognato di Conan Doyle il creatore di Sherlock Holmes. Foley cedette la villa sulla terraferma a Norman Douglas da cui la riacquistò dopo alcuni anni. Infine fu la vedova Foley a vendere al senatore Giuseppe Paratore la villa sulla terraferma nel 1910.
Nei decenni a seguire si verificarono molte delle tragedie legate all’isola, mentre la famiglia Paratore sulla terraferma si godeva una vita serena. Augusto F. Segre, affezionato nipote del senatore, passava le estati insieme agli zii alla Gaiola. Come raccontato nell’articolo Storie e ricordi della Gaiola, scritto insieme al fratello Aldo nel 2003, verso la metà degli anni 1960 fece una incredibile scoperta.
Dovendo sistemare una libreria su di una parete di un salottino, venne levata una tela anti-umidità posta da Douglas. Dietro la tela apparve un affresco quadrato raffigurante una grande testa terrificante, di più di un metro di larghezza, forse raffigurante una gorgone. “Nostro zio, convinto che quel volto mostruoso portasse sfortuna, lo fece nascondere dietro una parete a matton per ritto”, raccontano i fratelli nel loro articolo. Ma Augusto Segre riuscì a fotografarlo prima dell’occultamento.
Un membro dell’Istituto del Restauro a Roma, dopo aver visto la fotografia del mascherone, ha classificato l’affresco come una manifestazione della pittura detta impressionistica tardo-romana, databile tra il 2° e il 3° secolo d.C.
Il Gunther conferma di aver riscontrato negli scavi archeologici di Pausilypon alcune pareti affrescate con tagli quadrilaterali. Quindi tutto lascia supporre che il mascherone sia stato sottratto dal suo luogo d’origine e poi apposto nella villa Paratore, ora villa Ambrosio, da uno dei precedenti proprietari della zona archeologica.
Poche certezze riguardano questa immagine, visto che nessuno si è mai interessato a saperne di più. I greci usavano raffigurare la Medusa decapitata per proteggersi dai nemici, e forse gli Ambrosio ignoravano di avere un simbolo protettivo in casa, anche se ad aprile stavano ristrutturando la villa.
Un affresco romano dal significato duale: porta-jella e protettivo. Il suo spostamento, l’occultamento, il silenzio sulla sua esistenza: si tratta di nuovi elementi per gli appassionati del mistero della Gaiola? Oppure è una storia di ordinario vandalismo archeologico dell’era moderna?
Cercasi Indiana Jones disponibile a far quadrare il cerchio.
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Ho ucciso John Lennon!
Quarant’anni fa, il primo giugno 1969, viene registrato Give Peace a Chance, il manifesto del movimento pacifista internazionale firmato da John Lennon. Il 10 dicembre del 1971 l’Fbi apre ufficialmente un Dossier su John Lennon. In pochi anni vengono messe insieme 281 pagine interamente dedicate al musicista inglese. Secondo gli agenti dell’Fbi Lennon è un “estremista da considerare pericoloso”. Poco tempo dopo John confiderà ad un amico: «Ascolta, se succede qualcosa a me o Yoko, non sarà un incidente». Ecco le sue ultime ore raccontate da uno dei maggior esperti di Lennon in Italia.
8 DICEMBRE 1980: MUORE JOHN LENNON, COMINCIA LA LEGGENDA
di MICHELANGELO IOSSA*
“Quando me ne andai dall’Inghilterra non potevo nemmeno andare in giro per strada; quando ci trasferimmo a New York, continuavo a camminare tutto teso, aspettando che qualcuno mi dicesse qualcosa o mi saltasse addosso. Mi ci sono voluti due anni per rilassarmi. Adesso posso uscire da questa porta e andare al ristorante. Non puoi capire quant’è bello! La gente ti si avvicina, chiede l’autografo e dice ‘ciao’, ma non ti infastidisce”: era iniziato da pochi giorni un dicembre insolitamente tiepido quando John Lennon, in una delle sue tante interviste rilasciate poco dopo l’uscita di Double Fantasy, dichiarò il suo incondizionato amore per New York, una città che gli aveva regalato quella sicurezza e quella tranquillità che non aveva mai potuto apprezzare quando era un Beatle e viaggiava nelle metropoli di mezzo mondo. Londra, Amsterdam, Montreal, Manila, Parigi, San Francisco, Tokyo, Washington: una vita vissuta al fianco di guardie del corpo, poliziotti e road manager che lo difendevano dall’isterico assalto dei fans. Ma New York era diversa, più sicura, più protettiva con il “suo” John e con i suoi familiari.
Lennon non poteva immaginare che proprio un suo fan avrebbe distrutto la rassicurante magia di New York puntando una pistola Charter Arms calibro 38 contro di lui per trasformarlo nel martire più famoso della storia del rock.
Dalle prime ore del mattino.
Anche quel lunedì 8 dicembre, sin dalle prime ore del mattino, si preannunciò ricco di impegni familiari e professionali per John. Svegliatosi poco dopo le 7.00, il musicista dedicò i primi minuti della sua giornata a preparare la colazione per Sean e alle 9.00 era già al tavolo del “Cafè La Fortuna” per sorseggiare un buon espresso italiano prima di andare dal suo barbiere per un taglio di capelli.
Nel frattempo, dalle 8.15, la radio dell’ufficio di Yoko era sintonizzata sulle frequenze di Bbc Radio One: era iniziato il David Lee Travis Show, durante il quale venne trasmessa una piccola parte dell’intervista concessa il sabato precedente ad Andy Peebles dai coniugi Lennon.
Alle 9.45 John Lennon era nuovamente nel suo appartamento del Dakota, in tempo per accogliere lo staff del network radiofonico Rko guidato dal giornalista Dave Sholin. Poco dopo le 10.00 Laurie Kaye, Ron Kummel e Bert Keane iniziarono le registrazioni di uno special radiofonico dedicato interamente a John e Yoko. Sarebbe stata l’ultima intervista di Lennon.
Eccomi qua.
“Era di ottimo umore. – avrebbe ricordato Sholin nel 1990 – Aveva appena superato un brutto periodo e voleva ricominciare una nuova vita”. La conversazione, che venne trasmessa integralmente in Europa soltanto dieci anni dopo la morte del musicista, era colma di precisi riferimenti al “nuovo corso lennoniano” del quale (Just Like) Starting Over rappresentava la naturale colonna sonora.“(Con Double Fantasy) mi rivolgo alla gente che è cresciuta con me e dico: ‘Eccomi qua. Voi come state? Come vanno le vostre storie? Ce l’avete fatta? Gli anni Settanta non erano uno strazio? Beh, ora siamo qui. Cerchiamo di rendere migliori gli anni Ottanta perché tocca a noi farli diventare qualcosa di importante’. Non penso che il futuro sia fuori dal nostro controllo: credo ancora nell’amore, nella pace e nel pensiero positivo”.
L’intervista di Sholin si trasformò in un’ennesima prova d’autore per Lennon-il-comunicatore, il quale parlò liberamente della sua esperienza con i Beatles, delle partnership artistiche con McCartney e con la Ono, del figlio Sean e delle sue nuove produzioni discografiche. Con Sholin, però, John Lennon parlò anche del dualismo vita/morte, massicciamente presente nelle sue ultime composizioni, da My Life a Help Me To Help Myself sino alla profetica Dear John. Se da un lato Lennon affermava “Quando ero ragazzo, i 30 anni rappresentavano per me l’età della morte. Adesso ho 40 anni e mi sento meglio di prima”, dall’altro ammetteva “Ho sempre considerato il mio lavoro un pezzo unico (…) e penso che il mio lavoro non finirà fin quando sarò morto e sepolto”.
Fotografie.
Conclusa l’intervista per l’emittente Rko, John e Yoko si sottoposero ad un servizio fotografico per “Rolling Stone”; la celebre Annie Leibovitz fu ammessa nell’appartamento dei Lennon e, dalle 14.00 alle 15.30, portò a termine l’ultima session fotografica professionale dedicata all’ex-Beatle, i cui scatti avrebbero trovato spazio sull’edizione del 22 gennaio 1981 del magazine musicale statunitense.
Uscito dal Dakota Building alle 16.00, poco prima di salire a bordo dell’auto degli studi “Hit Factory”, John Lennon si intrattenne a chiacchierare con alcuni fans ed autografò i loro dischi. Anche il venticinquenne Mark David Chapman si avvicinò a John, gli mise in mano la sua copia di Double Fantasy. Lennon gli chiese se voleva un autografo e Chapman pigramente annuì con il capo, senza dire una sola parola e senza manifestare alcun entusiasmo per l’incontro con il suo Beatle preferito. Il cantante gli firmò l’album e osservò con la coda dell’occhio il fotografo Paul Goresh come se volesse dirgli “qui c’è qualcosa che non va”. Goresh scattò alcune foto dei due, prima di vedere allontanarsi John a bordo della limousine. Lennon non amava quell’automobile nera, così cupa, così poco promettente. La sua limousine preferita era infatti una Fleetline color argento metallizzato: per qualche strano motivo, l’auto non arrivò e John dovette utilizzare la vettura nera degli studi di registrazione.
Sean rimase al Dakota in compagnia di Helen, moglie di Fred Seaman, l’assistente dei Lennon.
In studio.
Il 33 giri Double Fantasy, a due sole settimane dal lancio, aveva già conquistato il disco d’oro. Dopo aver festeggiato con il discografico David Geffen l’importante successo professionale, il produttore Jack Douglas, Yoko Ono e John Lennon si misero al lavoro, preparando nuovi missaggi della canzone Walking On Thin Ice.
Alle 22.30 il lavoro sui nastri del brano di Yoko era ormai terminato. La limousine nera poteva ora accompagnare John e sua moglie a casa.
Mister Lennon.
Ore 22.52 a New York – ore 3.52 a Londra: John Lennon uscì dall’auto, fece pochissimi passi. L’ombra di un uomo emerse dal nulla. Mark David Chapman, il fan che solo poche ore prima aveva avuto la fortuna di incontrare il suo idolo per farsi autografare la copia di Double Fantasy, esclamò “Mister Lennon!” puntando la pistola contro il musicista e sparandogli i cinque proiettili della Charter Arms calibro 38.
Lennon fece pochi passi per raggiungere il gabbiotto del doorman del Dakota, Jose Perdomo, e si accasciò per terra sanguinante. Yoko cominciò ad urlare in maniera isterica ed incontrollata: “Aiutatemi! È stato sparato, è stato sparato! Qualcuno venga presto qui”.
Il concierge del Dakota, Jay Hastings, telefonò immediatamente alla polizia e si precipitò all’esterno dell’edificio per aiutare Yoko Ono. Perdomo corse verso Chapman per immobilizzarlo, ma l’assassino era fermo ed osservava impassibile la scena del delitto.
Hastings si tolse l’uniforme blu per coprire il corpo di Lennon e gli sfilò dolcemente i suoi inconfondibili occhialini tondi, un simbolo per schiere di fans, cresciute ascoltando Strawberry Fields Forever e Imagine. John stava morendo.
Il giovane Holden.
L’auto più vicina al luogo del delitto si trovava tra la 72esima strada e Broadway: la macchina guidata dai poliziotti Steve Spiro e Peter Cullen del New York Police Department accorse pochi minuti dopo l’assassinio. I due arrestarono immediatamente Chapman. Nella tasca dei suoi vestiti furono trovati soltanto una copia del romanzo “Il Giovane Holden” di J. D. Salinger e 2.000 dollari in contanti.
Dopo essere stato ammanettato, l’assassino affermò: “Avevo un uomo enorme ed un uomo piccolo dentro di me. L’uomo piccolo è quello che ha premuto il grilletto!”.
Sollecitate dai due agenti Spiro e Cullen, altre auto della polizia si avvicinarono al Dakota Building: furono i poliziotti James Moran e Bill Gamble a caricare sulla loro auto John Lennon, dopo essersi resi conto che non c’era più tempo di aspettare un’ambulanza. Mentre la macchina correva verso il St. Luke’s Roosevelt Hospital, Gamble chiese a John: “Come ti chiami?”. “Lennon” fu la risposta del musicista.
Per mantenere in stato di coscienza l’ex-Beatle, l’agente replicò: “Sei sicuro di essere John Lennon?” e la risposta non tardò ad arrivare: “Sì, sono John Lennon”.
L’ultima domanda fu: “Come ti senti?”. “Sto male” furono le ultime parole di John Lennon.
John è morto.
“Ditemi che non è vero!” continuò a gridare in maniera isterica Yoko Ono, che raggiunse l’ospedale della West 59th Street a bordo di un’altra auto della polizia, guidata dall’agente Anthony Palmer.
Giunto al reparto di rianimazione del St. Luke’s Roosevelt Hospital, il corpo di Lennon fu affidato all’equipe guidata dal dottor Stephan Lynn.
Alle 23.07 Lynn dichiarò John Lennon “ufficialmente deceduto” ed informò Yoko Ono alle 23.15: “Abbiamo fatto tutto ciò che potevamo per riportarlo in vita, ma non c’è stato nulla da fare. Riteniamo che il primo proiettile sia stato letale, poiché ha danneggiato l’arteria principale”.
La notizia della morte di John fece rapidamente il giro degli Stati Uniti ed in poche ore raggiunse anche il continente europeo. Fu la trasmissione sportiva della Wabc Tv “Monday Night Football” a dare per prima la notizia: il giornalista Howard Cosell, al quale solo sei mesi prima John Lennon aveva rilasciato una breve intervista, venne informato dal produttore televisivo Bob Goodrich della morte del musicista durante una pausa del programma e diede la notizia in diretta.
Alle 23.35 Jack Douglas, ancora intento a lavorare al banco-mixer degli “Hit Factory”, ricevette la tragica notizia da Yoko Ono: lo stato di shock di Douglas, vero promotore del grande ritorno discografico di Lennon, ebbe inizio quella sera stessa e si concluse soltanto nell’estate dell’anno seguente.
Poco dopo la mezzanotte, fu uno Stephan Lynn in camice bianco ad affrontare la stampa davanti al St. Luke’s Roosevelt Hospital; i flash dei fotografi accompagnarono la lettura del rapporto medico. Secondo quanto spiegato da Lynn, John Lennon era stato colpito al torace, al braccio sinistro e alla schiena. Rispondendo alle domande dei tanti giornalisti, il medico spiegò che Yoko Ono era stata informata della morte del marito e che era rimasta sconvolta dalla notizia.
Scortata dalla polizia, dal produttore Jack Douglas e dal discografico David Geffen, la Ono venne condotta al Dakota Building. All’una di notte, davanti all’ingresso della residenza newyorchese dei Lennon, erano già assiepate oltre seicento persone che, in lacrime, intonavano le canzoni dei Beatles e di John. Il crescente numero di fans costrinse il New York Police Department ad erigere delle barriere di legno davanti all’entrata del Dakota.
Alle due di notte, il capo della polizia di New York, James T. Sullivan, tenne una conferenza stampa presso il ventesimo distretto, nella West 82nd Street, durante la quale spiegò: “Vi abbiamo riuniti qui per fornirvi alcune informazioni raccolte sinora in merito all’omicidio di John Lennon. Abbiamo tratto in arresto Mark David Chapman proveniente dalla 55 South Kukui Street, nelle Hawaii, per aver commesso l’assassinio di John Lennon. Nato il 10 maggio 1955, Chapman avrebbe soggiornato a New York per una settimana circa”.
La veglia silenziosa.
Le sigle delle edizioni straordinarie dei telegiornali risuonavano nelle stanze del Dakota quando, alle tre del mattino, Yoko telefonò a Paul McCartney in Inghilterra per comunicargli la tragica notizia. Poco dopo, la vedova Lennon dettò a Geffen una dichiarazione che avrebbe personalmente trasmesso alla stampa internazionale: “Non ci sarà alcun funerale per John. – recitava il comunicato – Nel corso della settimana definiremo l’organizzazione di una veglia silenziosa per pregare per la sua anima. Vi invitiamo a partecipare, dovunque voi vi troviate. Vi ringraziamo per i tanti fiori che avete inviato a John. Per il futuro, vogliate inviare donazioni alla Spirit Foundation Inc., organizzazione benefica fondata personalmente da John. L’avrebbe apprezzato moltissimo. John ha amato e pregato molto per tutti gli uomini. Vi chiediamo di pregare allo stesso modo per lui. Con amore, Yoko e Sean”.
In realtà, il piccolo Sean non ricevette alcuna notizia della morte del padre per ben ventiquattr’ore.
L’assassinio di John Lennon ci ha privato di una delle voci più preziose che la musica popolare del dopoguerra abbia espresso. L’eredità lennoniana è senza dubbio ingombrante: per la capacità di coinvolgimento dell’opinione pubblica, per l’abile uso delle arti (poesia, musica, letteratura e segno grafico), per la brillante dialettica.
Caro John, non essere duro con te stesso / Concediti una pausa / La vita non è stata concepita per essere vissuta di corsa / Ora la corsa è terminata / E tu hai vinto: con molta probabilità fu proprio Dear John l’ultimo brano composto da Lennon poco prima della sua tragica morte. È davvero sconcertante leggere oggi, a distanza di quasi trenta anni dalla scomparsa del musicista di Liverpool, il verso Ora la corsa è terminata, sapendo che è stato scritto poco prima di quel lunedì 8 dicembre 1980.
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*Michelangelo Iossa (L’Aquila, 1974) vive e lavora a Napoli; è tra i maggiori studiosi italiani del fenomeno-Beatles: è co-autore del libro The Beatles (Editori Riuniti, 2003), autore dell’ampio volume Le Canzoni dei Beatles (Editori Riuniti, 2004), del libro Gli Ultimi Giorni di Lennon (Infinito Edizioni, 2005) e del italiani del fenomeno-Beatles: è co-autore del libro The Beatles (Editori Riuniti, 2003), autore dell’ampio volume Le Canzoni di George Harrison (Editori Riuniti, 2006). Nel dicembre 2004 ha ricevuto il Premio della Cultura – Anno 2004 dal Dipartimento per l’Informazione e l’Editoria della Presidenza del Consiglio dei Ministri.
Dal giugno 2009 dirige NEWS DAL MONDO BEATLES (http://newsdalmondobeatles.blogspot.com/) un blog tutto italiano dedicato al leggendario quartetto di Liverpool e curato da MFL comunicazione (www.mflcomunicazione.it).
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Cento anni fa Joe Petrosino
Cento anni fa moriva Joe Petrosino. Il leggendario poliziotto italo-americano era nato a Padula. Il suo è stato il primo omicidio di Stato. Firmato la Mano Nera.
di ADRIANA D’AGOSTINO
La piazza era vuota. La pistola sparò quattro volte.
Quando si accasciò dalla tasca interna della giacca caddero un orologio d’oro, un foglietto spiegazzato e un biglietto da visita.
L’orologio era americano, era legato alla tasca con una pesante catena d’oro e segnava le venti e quarantasette.
Il foglio spiegazzato al centro, in alto, aveva una data, 12 marzo 1909. E un macchia d’inchiostro. Una macchia che sembrava una mano nera.
Il biglietto da visita recava, in tondo, maiuscolo e miniscolo, la dicitura “Polizia di Nuova York”. In corsivo, tutto minuscolo, un nome. Un solo nome: Giuseppe Petrosino. Più o meno così.
Sono trascorsi cento anni esatti dai quei quattro colpi di pistola che spensero la vita del grande poliziotto italo-americano e Gialli.it gli dedica uno speciale.
Il Viaggio in Italia
Petrosino è nato qua
Un eroe a fumetti
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Il Codice Zodiac
Un cerchio attraversato da una croce, forse una croce celtica, sicuramente un simbolo che tra il dicembre del 1968 e l’ottobre del 1969 per il nord della California significa morte, significa terrore, significa Zodiac. Gialli.it vi racconta la sua storia. E quello che è successo dopo.
di DIEGO PURPO
Vallejo, 20 dicembre 1968, circa le 23,15 di una notte fredda anche in California. David Faraday, 17 anni, e la fidanzata Betty Lou Jensen, 16 anni sono in auto, appartati in un’area di parcheggio, nonostante la rigida temperatura invernale. Improvvisamente degli spari. Una 22 mm caricata con Winchester Western Super X, con punta in rame, stronca le loro giovani vite. Il ragazzo colpito alla testa, lei raggiunta da 5 colpi alla schiena.
È il primo di una serie di omicidi commessi da un serial killer che non sarà mai arrestato. Sono queste le prime vittime della mano assassina di Zodiac.
A distanza di 7 mesi, il 4 luglio 1969, l’omicida torna a colpire. Ancora una coppia. Ancora in auto. Ancora un parcheggio a Vallejo. Darlene Ferrin, 22 anni, e l’amante diciannovenne, Mike Mageau sono nel veicolo quando un’altra macchina, una Ford Mustang o Chevrolet Corvair, accosta accanto alla loro. Ne esce un uomo che avvicinatosi al finestrino inizia a sparare con una 9 mm. Darlene muore, ma Mike, ancora vivo, inizia a lamentarsi. L’assassino, già allontanatosi, torna indietro e spara altri 2 colpi a testa, ma Mike sopravvive. Agli inquirenti darà una breve descrizione dell’uomo: bianco, un metro e settantacinque, capelli scuri, robusto, circa trent’anni.
Poco più tardi qualcuno chiamerà la polizia e si attribuirà questo delitto e quello di dicembre.
Il 31 luglio il Times Herald di Vallejo, l’Examiner e il Chronicle di San Francisco ricevono le prime lettere di quello che sarà un lunghissimo rapporto epistolare tra i mass media e l’assassino. Ogni missiva contiene particolari noti solo all’omicida e agli inquirenti e un terzo di un codice cifrato. La soluzione dell’enigma dovrebbe rilevare l’identità del killer.
Dietro minaccia di altre vittime, le testate sono costrette a pubblicare i 3 crittogrammi il 1° agosto 1969. La soluzione, ad opera di alcuni lettori dei giornali, non porterà indizi utili alle indagini
Nella lettera del 4 agosto 1969, indirizzata all’Examiner, l’omicida si presenta, per la prima volta, con il nome di Zodiac. Seguiranno molte altre lettere, spesso siglate con un simbolo simile ad una croce celtica, ed altri 3 messaggi in codice, ancora insoluti.
Zodiac rimane un fantasma. Ma dopo gli omicidi la sua storia diventa leggenda nera. E qualcuno comincia anche a “giocarci”.
All’interno: Zodiac era mio padre. L’ultima beffa del serial killer che ha terrorizzato la California
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Domande senza risposta
Un cognome con quindici versioni, tre nomi di battesimo diversi e mille incertezze anche su data e luogo di nascita. Hanno scritto di lui che “amava il buio. Lo utilizzava in pittura, lo ricercava nella vita”. Ma chi era veramente Michelangelo Merisi, detto Caravaggio?
Sul pittore maledetto è stato scritto tutto e il contrario di tutto. Forse per mettere insieme almeno alcuni dei tasselli di questo inestricabile mosaico che è fu la sua vita bisognerebbe cominciare a dare voce ad una serie di domande che da troppo tempo aspettano una risposta.
Cominciamo noi. E attendiamo anche le vostre.
Domande senza risposta.
– Perche Caravaggio fu arrestato e chiuso nella Guva?
– Come fece ad evadere da una prigione impossibile dalla quale si sarebbe potuto uscire solo per mezzo di funi o scale (la “guva” o “cuva” era una fossa scavata nella roccia profonda più di tre metri)?
– Perché nei documenti dell’Ordine non ci sono indicazioni precise e dettagliate dell’arresto e soprattutto delle motivazioni dell’arresto?
– Chi lo aiutò a scappare?
– Cosa accadde a Napoli all’entrata della Taverna del Cerriglio. Chi erano gli uomini che lo aggredirono e lo sfigurarono?
– Quali furono gli spostamenti di Caravaggio prima della morte? Era a Porto Ercole? Era a Palo? Era in stato d’arresto?
– Perché c’è un riferimento all’Isola di Procida riguardante i suoi ultimi giorni?
– Che fine ha fatto il corpo?
– Perché nessuno reclamò le sue spoglie?
– Che fine hanno fatto le “robbe” del pittore?
– Nel suo ultimo viaggio era accompagnato da qualcuno?